La partita contro il Covid, i professionisti, la giocano con una squadra di Serie B. Almeno secondo le regole stabilite dal Governo, da ultimo, con il decreto Rilancio, che ha escluso il comparto professionale dall’accesso ai contributi a fondo perduto, previsti invece per le imprese.
Ma a ben vedere, se riavvolgiamo il nastro all’inizio dell’emergenza, l’atteggiamento dell’Esecutivo, nei confronti delle libere professioni, è sempre stato uguale: interventi “tappabuchi” inseriti al fotofinish. Basti pensare all’iniziale esclusione dall’accesso al sostegno al reddito di 600 euro, previsto dal decreto Cura Italia solo per gli autonomi iscritti alla gestione separata Inps. Un provvedimento che ha provocato una prima levata di scudi degli organi di rappresentanza delle professioni. Oggi, dopo il decreto Rilancio, il film si ripete: professionisti “dimenticati” e protesta unitaria di Cup (Comitato unitario delle professioni) e Rpt (Rete delle professioni tecniche) con la convocazione degli Stati Generali del 4 giugno. Ma non basta.
Quel poco che è stato previsto, in materia di professioni, è stato normato male. Due articoli del decreto Rilancio vanno infatti in senso opposto: uno (art. 78) rifinanzia la misura di sostegno al reddito di marzo anche per i mesi di aprile e maggio, l’altro (art. 86) rende il bonus già erogato incompatibile con quello dei mesi successivi. Un boomerang: per far fronte a uno dei trimestri più drammatici della storia della Repubblica, i professionisti hanno a disposizione la miseria di 600 euro. Come tentare di fermare le onde a mani nude. E i primi dati certificano la catastrofe. Oltre la metà dei commercialisti, secondo un’indagine dell’Osservatorio Covid-19 del Consiglio e della Fondazione nazionale commercialisti, registrano un calo di fatturato, nel mese di aprile, superiore a un terzo. Due su tre dichiarano di avere imprese clienti che non riaprono dopo il lockdown. Motivo? Carenza di liquidità, eccessiva onerosità dei protocolli di sicurezza e rischio di responsabilità penale per il datore di lavoro in caso di contagio di un dipendente (uno dei numerosi “tilt” della comunicazione di questo Governo).
Ma il paradosso è che nonostante il calo di fatturato, solo il 34% dei commercialisti ha potuto beneficiare del bonus di 600 euro concesso dal decreto Cura Italia per il mese di marzo. A questo punto la domanda che sorge spontanea è: dove sta l’inghippo? Perché i professionisti sono “l’ultima ruota del carro”? È un problema di rappresentanza? Per gli avvocati sicuramente sì.
Il Consiglio nazionale forense è di fatto bloccato dopo che il tribunale di Roma, con ordinanza del 13 marzo scorso ne ha decapitato i vertici, dal presidente Andrea Mascherin al vicepresidente Giuseppe Picchioni. La carica ora è in mano all’altra vicepresidente, Maria Masi e il risultato è un silenzio assordante, reso drammatico dalla situazione. Gli avvocati possono contare quindi solo sulla Cassa di previdenza (che però non è un organo di rappresentanza politica) e su iniziative su base locale. Come nel caso del pacchetto di proposte messo a punto a inizio emergenza dai presidenti degli ordini degli avvocati di Roma (Antonino Galletti), di Milano (Vinicio Nardo), di Napoli (Antonio Tafuri), di Palermo (Giovanni Immordino). Troppo poco. Se i professionisti, contro il Covid, giocano con una squadra di serie B, agli avvocati manca proprio la squadra.